Ma neppure per quelli più “maturi” come me, verrebbe da dire. Circa tre anni fa l’American Counseling Association mi chiedeva di scrivere – insieme ad altri due colleghi – il capitolo sull’Italia del libro Counseling around the World, un mastodontico handbook che ripercorre l’evoluzione del counseling nei vari paesi del mondo.
A seguito di quella pubblicazione sono stato recentemente invitato a tenere una conferenza a degli studenti universitari statunitensi e ad alcuni loro docenti. Oggetto dell’intervento: la storia del counseling in Italia.
È stata un’esperienza molto stimolante poiché mi ha sostanzialmente obbligato ad astrarmi dal mio ruolo e a trovare parole adatte per spiegare come da noi si sia sviluppata questa professione.
Quando faccio lezione ai miei studenti dico sempre scherzosamente – ma non troppo – che la professione di counselor in Italia nasce più o meno in concomitanza con quella di psicologo.
Il passato è il prologo
(W. Shakespeare, “La tempesta”, atto secondo, scena prima)
La professione di psicologo nasce nel 1989 dopo vari tentativi, tutti andati a vuoto, di costituire un Ordine professionale. Da una parte, per ragioni diverse, il sindacato e alcuni docenti universitari. Dall’altra il mondo libero professionale più o meno compatto.
Il sindacato ha la necessità di rafforzare il proprio potere contrattuale nella difesa degli interessi degli psicologi assunti dal SSN. Alcuni docenti universitari vedono, nel rafforzamento (inevitabile) delle facoltà di psicologia, nuove cattedre e dunque nuovi potenziali baronati.
Il mondo libero professionale, invece, proprio non sente la necessità di una regolamentazione obbligata a passare dalla costituzione di un Ordine professionale. E anzi teme – timore che poi si rivelerà fondato – che questo passaggio sarà foriero di una omologazione della professione e dei professionisti.
All’interno di questa dialettica si inserisce, prepotentemente, il mondo della medicina, universitario e non. L’Ordine dei medici proprio non ne vuole sapere di riconoscere la figura dello psicologo, che in quegli anni chiama con un certo disprezzo “l’amico pagato”.
Non solo: in quegli anni fioccano denunce da parte di medici verso psicologi (per esercizio abusivo) come la neve a gennaio.
Inevitabile non fare un parallelo con alcuni psicologi che, oggi, hanno avuto l’insolenza di definire il counselor “un trombamico”. Altrettanto inevitabile non fare un parallelo con le decine di segnalazioni in Procura per esercizio abusivo della professione di psicologo a carico dei counselor.
Alla fine si giunge ad una mediazione, decisamente al ribasso per gli psicologi: all’interno della Legge di ordinamento della professione si inserisce un articolo, il numero 3, che sostanzialmente derubrica la psicoterapia a specializzazione della medicina e della psicologia, quando in tutto il resto del mondo la psicoterapia è una professione a se stante. Credo che ancora oggi siano pochi gli psicologi che conoscono questa peculiarità, ovvero che quella di psicoterapeuta in Italia non è una professione.
In pratica i medici pretendono (e ottengono) che il settore della clinica resti comunque in mano anche a loro. In tutto questo è emblematico notare di come l’ubi maior di romana memoria riesce ad andare oltre ogni aspettativa: psichiatri, neurologi e neuropsichiatri sono di fatto anche psicoterapeuti, pur non avendo mai avuto una formazione specifica, ma semplicemente richiedendo al proprio Ordine provinciale di essere annotati nell’elenco degli psicoterapeuti.
A quel punto è inevitabile che la psicologia professionale, tutta tesa a rincorrere la medicina e i medici, abbia sostanzialmente buttato alle ortiche quasi cento anni di storia per appiattirsi completamente sulla clinica.
Per molti anni – e in parte ancora oggi – la laurea in psicologia più che rappresentare un titolo di studio abilitante all’esercizio di una professione, ha rappresentato di fatto una sorta di passaggio obbligato per diventare psicoterapeuti.
Negli anni, durante questa rincorsa, abbiamo assistito a uno scimmiottamento della professione di medico, che inevitabilmente ha lasciato scoperte aree di studio, di ricerca e di applicazione non cliniche. Penso alla psicologia dello sport, a quella scolastica, alla psicologia del lavoro e delle organizzazioni oltre ad alcune interessanti contaminazioni che ci sarebbero potute essere: la psicologia ambientale, per citare la prima che mi viene in mente.
Contestualmente lo scimmiottamento del così detto modello “medico-paziente” ha di fatto privilegiato approcci psicologici evindence based, lasciando indietro buona parte di quell’approccio umanistico-esistenziale che tanta fortuna aveva avuto negli Stati Uniti nella metà del secolo scorso.
Sono ancora vivi, nella mia memoria, i ricordi di un tempo in cui se il tuo modello formativo era gestaltico, venivi più o meno guardato come si guarda uno stregone.
La sociologia, ancor prima della psicologia, spiega bene di come quando si lascia uno spazio vuoto, questo comunque venga riempito.
Il totale abbandono di un approccio non direttivo, rispettoso del cliente, che vede sullo stesso piano utente e professionista, che privilegia la parte sana di una persona, lascia di fatto aperta la strada a molte professioni che non intendono piegarsi alla logica della sanitarizzazione forzata dei rapporti umani.
Una di queste è la professione di counselor che, diversamente da quella di psicologo, pone maggiormente l’accento sull’individuo sano che, per ragioni strettamente legate alle fasi della vita, si trova a vivere dei momenti di difficoltà. Classici sono gli esempi legati a certe fasi evolutive: la creazione di un proprio nucleo familiare, la nascita di un figlio, le incertezze legate ad alcune scelte scolastiche e lavorative, il pensionamento, etc.
C’è grande fermento nel mondo del counseling italiano: in assenza di norme statali si iniziano a strutturare le prime esperienze che cercano di definire criteri formativi e professionali. Queste esperienze si concretizzano con la nascita delle prime scuole di formazione e delle prime associazioni di categoria. Siamo nella prima metà degli anni ‘90.
Nel frattempo la professione di psicologo inizia a implodere: negli “anni d’oro” alla facoltà di psicologia de “La Sapienza” di Roma erano iscritti studenti uguali, per numero, agli abitanti della città di Siena. Oggi parliamo di quasi 100.000 iscritti all’Ordine degli psicologi (uno psicologo ogni dieci condomini), un numero senza eguali nel panorama europeo e il trend continua a essere in aumento.
Inevitabili le difficoltà di inserimento lavorativo e, con esse, le prime recriminazioni di stampo simil-statalista: siccome ho studiato e sono iscritto a un Ordine, lo Stato mi deve garantire un lavoro. Altrettanto inevitabile la necessità di serrare le fila e proteggere i confini dai barbari (i barbari siamo noi counselor, ovviamente).
E, anche in questo caso, come non pensare ai selvaggi di freudiana memoria?
Historia magistra vitae, diceva Cicerone. Ma, si sa, la storia non è nel piano di studi delle facoltà di psicologia…
Un po’ come quando si dà l’assalto al fortino, provando a scansare quelli che ti tirano addosso la pece bollente. Peccato però che, molto spesso, quando alla fine riesci a scavalcare, vai a dare man forte a coloro che tirano la pece, fianco a fianco con quelli che fino a ieri erano i tuoi “nemici giurati”.
Oggi il counseling è in Italia una professione (sì, una professione, con buona pace dei giuristi della domenica che si barcamenano nel dare interpretazioni da due soldi della nostra Costituzione per dimostrare che il counseling non sarebbe una professione…) che sta cercando con difficoltà una sua collocazione.
Da una parte la necessità di definire meglio e in maniera più rigorosa standard formativi e professionali e dall’altra la necessità di superare una dialettica – fino ad oggi conflittuale e improduttiva – con i colleghi psicologi (sì, lo so, qualcuno si arrabbierà perché li ho chiamati “colleghi”).
Oggi i counselor italiani sono sempre di più in contatto con i colleghi di altri paesi e con le loro esperienze. Le associazioni di categoria stanno lavorando per innalzare gli standard formativi e, parimenti, rendere sempre più rigorosi i criteri di selezione.
L’organizzazione della professione è fluida, moderna, orientata al modello accreditatorio che privilegia l’aggiornamento permanente, la supervisione e la necessità di dimostrare in itinere le proprie qualità professionali.
Attraverso Federcounseling si lavora per uniformare i criteri di esercizio della professione e recentemente abbiamo assistito alla nascita di ASCo, la prima associazione di categoria degli enti di formazione in counseling.
La mia associazione di categoria, AssoCounseling – Associazione professionale di categoria, da sempre impegnata nel settore della tutela e dello sviluppo della professione, ha recentemente varato la Carta di Assago, un documento condiviso sul ruolo che il counseling può e deve assumere nella costruzione del benessere individuale e collettivo nella società attuale.
Dunque, tutto sommato, il titolo di questo breve scritto è ingeneroso. Alla fine sono convinto che l’Italia possa ancora essere un paese per counselor (giovani e meno giovani, si intende!).
Adami Rook, P., Ciofi, R., Giannini, M. (1998) “Note per una storia della psicoterapia in Italia”, in: Freedheim, D.K. (a cura di) Storia della psicoterapia, Roma, Edizioni Scientifiche Magi.
Remley, T.P., Mariotti, D., Valleri, T. (2013) “Chapter 25: Italy”, in: Hohenshil, T.H., Amundson, N.E., Niles, S.G. (a cura di) Counseling around the World, Alexandria (VA, USA), American Counseling Association.
Legge 18 febbraio 1989, n. 56 “Ordinamento della professione di psicologo” .
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