Questo articolo è dedicato a coloro che, non essendo “del settore” o essendoci entrati da poco, non hanno conoscenza di come si è arrivati in Italia a confliggere spesso in maniera così aspra sui temi legati alla definizione dell’identità professionale del counselor.
Tale diatriba vede sostanzialmente due attori coinvolti: la comunità dei counselor e la comunità degli psicologi.
I primi corsi di counseling sono apparsi in Italia alla fine degli anni ‘80 e sono stati introdotti da psicoterapeuti di vari orientamenti. La formazione si basava principalmente su un lavoro personale in gruppo con l’apporto di alcuni riferimenti teorici. I corsi non seguivano criteri comuni, erano rivolti a tutti, non c’era richiesta di titoli o conoscenze pregresse per accedervi e veniva rilasciato, nella maggior parte dei casi, un diploma finale.
Nei dieci anni successivi i primi counselor diplomati hanno iniziato a muovere i loro passi nel mondo delle relazioni d’aiuto. Passi incerti, legati a una formazione poco definita, figlia della tradizione psicoterapeutica e di un modeling spesso ambiguo nei contenuti e nella forma.
Partendo da questa prospettiva, questi stessi counselor hanno iniziato a riflettere sulle proprie azioni e a crearsi uno spazio autonomo di riferimento, sempre più definito e distante dalla prassi psicoterapeutica che, inevitabilmente, avevano interiorizzato dopo gli anni della formazione.
Attenzione: questo passaggio è delicato e importante. Come si è arrivati a sdoganarsi da quella formazione?
La risposta è nella pratica: i counselor hanno iniziato a verificare che la formazione ricevuta era molto importante per avere consapevolezza di sé e delle proprie dinamiche, ma non era replicabile per intenti, obiettivi e competenze in una relazione professionale di counseling. A questo punto, prima singolarmente e poi insieme, grazie al lavoro delle associazioni di categoria, i counselor si sono incontrati, hanno iniziato a condividere buone pratiche ed esperienze, hanno riflettuto su modalità e strumenti, hanno messo luce sulle zone grigie e ambigue e questo lavoro è tuttora in corso.
Tra il 2000 e il 2010 sono nate le prime scuole tenute anche da counselor, ancora guidate per la maggioranza da psicoterapeuti, ma con un apporto maggiore dei counselor, che hanno iniziato a rivendicare un dato di fatto, ovvero che da un incerto e artigianale progetto (più o meno consapevole) di molti psicoterapeuti in Italia, di rendere accessibile a tutti strumenti per l’autorealizzazione e l’evoluzione umana, era nata una professione vera e propria; non solo, questa professione cominciava a essere autonoma e diversa e cominciava ad avere abbastanza chiara la propria direzione e la necessità di emanciparsi dalla “famiglia di origine”.
Questo inciso è fondamentale perché il counseling in Italia nasce e cresce in questo frangente ed è proprio questo contesto storico che ne favorisce la sua definizione.
Oggi In Italia ci sono tantissime scuole di counseling. Molte di queste sono all’interno di istituti nei quali si formano anche psicoterapeuti. La percentuale dei counselor formatori (trainer) è salita notevolmente e in molte realtà ha eguagliato o superato quella degli psicoterapeuti.
I counselor professionisti in Italia possono contare sull’organizzazione delle associazioni di categoria che definiscono tutele, standard e regole, sulle base delle opportunità derivanti dalla legge 4/2013 e su una crescente maturità professionale.
Questa progressiva autonomia e l’evidenza di una nuova professione ha generato conflitti con l’Ordine degli psicologi e in particolare con quella parte di professionisti anagraficamente più giovani, che non avendo assistito e contribuito alla nascita di questa professione, ne contestano l’utilità e la legittimità.
Contestano la formazione e rivendicano come proprio ed esclusivo il campo della “relazione d’aiuto”. All’interno dell’albo ci sono anche tutti gli psicologi e gli psicoterapeuti che invece hanno fondato scuole di counseling e che continuano a formare counselor adeguandosi, oggi, agli standard richiesti dalle associazioni di categoria, che hanno cercato di mettere ordine in un sistema molto disomogeneo (il lavoro da fare, in questo senso, è ancora tanto).
Gli psicoterapeuti favorevoli al counseling, si dividono in due categorie:
1) coloro che riconoscono che il counseling ha percorso una sua strada e osservano questa crescita, favorendola e riconoscendola come altro da sé;
2) coloro che invece conservano una visione “paternalistica” e che accettano il counseling (e i counselor) purché resti in qualche modo legato alla “supervisione” dello psicoterapeuta.
È necessaria una maggiore definizione dei percorsi formativi.
È necessaria una maggiore condivisione delle esperienze professionali e delle buone pratiche tra counselor.
È necessario impegnarsi per confinare fenomeni legati a pratiche di counseling non rispettose di principi e regole condivise.
È necessario che i counselor acquisiscano maggiori e continue competenze culturali e di studio.
Se i counselor sapranno rispondere alla “sfida” di rendersi autonomi e consapevoli delle proprie potenzialità e limiti professionali, il counseling in Italia potrebbe essere un collante nel mondo delle relazioni d’aiuto e una valida risposta ai bisogni emergenti dei nostri tempi, sia a livello individuale che di gruppo.
Gli psicologi e psicoterapeuti favorevoli al counseling e all’affermazione di una “nuova” identità professionale, dovrebbero esplicitare maggiormente queste posizioni non solo nelle sedi istituzionali e nei tavoli di discussione già esistenti, ma anche favorendo un’operazione di tipo culturale all’esterno.
La collaborazione e lo scambio, nel rispetto delle competenze e dell’autonomia di tutti i professionisti dell’aiuto, è l’unica strada percorribile nel rispetto e nell’interesse del cliente.
Questa strada è possibile solo se tutti gli attori coinvolti si relazionano su un piano di parità, competenza e rispetto, sdoganandosi da una visione di tipo gerarchico.
Senza considerare – perché non è un tema affrontabile in questo articolo – l’impatto culturale del così detto “paradigma della complessità” che caratterizza gli studi sull’epistemologia del nostro secolo, ampiamente trascurato nelle diatribe sul tema, anche quando qualche leone da tastiera si avventura in boutade relative alla psicologia come presunto unico riferimento epistemologico del counseling.
Alcune questioni sulle quali alcuni psicologi basano la loro logora narrazione contro il counseling:
Non vogliamo fare gli psicologi, vogliamo fare i counselor. Che piaccia o no, la figura professionale del counselor in Italia è realtà. Si vuole affermare che tutto questo è nato da un grande errore commesso dagli psicologi e dagli psicoterapeuti? Siamo pronti a farcene una ragione e a condividere lo stesso destino del panettone (nato dall’errore di un pasticcere e diventato poi un dolce tradizionale della pasticceria italiana).
Non facciamo diagnosi. Le persone che arrivano in counseling definiscono e parlano delle proprie esigenze e quando queste sono incompatibili con il percorso di counseling, il counselor invia alle figure competenti. Inoltre il counselor ha acquisito la capacità di comprendere quando e in che termini il suo intervento non può essere di aiuto o corrispondente all’interesse del cliente, perché è un tema che ha affrontato nel suo percorso di studi e sul quale, in caso di dubbio, si confronta con un supervisore che, ricordiamolo (perché bisogna parlare della realtà e non in astratto), in molti casi è uno psicoterapeuta.
Questo passaggio, tra i più ostici, ci offre la possibilità di sottolineare uno degli aspetti del ruolo del counselor nell’attuale società “come diffusore sociale in una cultura fondata sull’etica e sull’empatia” (parole di Baiocchi del 2001) e ci consente di sottolineare anche un altro concetto, quello della cittadinanza che porta con sé doveri, ma soprattutto il diritto alla scelta consapevole e all’autodeterminazione.
I nostri clienti sono (dovrebbero essere) cittadini e non sudditi di una concezione che li vorrebbe “malati fino a prova contraria”.
Questo è totalmente falso. La formazione ottenuta attraverso i corsi di laurea in psicologia non consente di ottenere una preparazione adeguata per diventare counselor. Per diventare counselor è necessario fare una formazione specifica che al momento, diciamolo chiaramente, non è un know how nelle disponibilità delle università, perché non appartiene alla sua storia, esattamente come al counseling non appartiene la tradizione culturale della laurea in psicologia.
Da counselor mi auguro che tutti i tavoli attualmente aperti per una definizione più condivisa della nostra identità professionale proseguano e producano un reale cambiamento in questo dibattito divenuto abbastanza anacronistico.
Credo che la discussione non possa più vertere su interrogativi del tipo il counseling esiste ed è una professione autonoma?, semplicemente perché questo lo definisce già la realtà da molti anni e a meno che non si voglia negare l’evidenza, credo si possa procedere a prenderne atto e discutere su regole condivise e di valore per tutti.
Credo infine che qualsiasi definizione di “cosa è il counseling” non possa censurare parole, aggettivi e significati patrimonio non solo della lingua italiana, ma dell’umanità.
Ogni tentativo di manipolazione a scopo politico e puramente propagandistico risulterebbe infatti, oltre che ridicola, anche assolutamente dannosa.
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