Si è aperto negli ultimi giorni uno stucchevole dibattito su quanti siano i femminicidi in Italia e quali siano i criteri per definirli. Non è ancora stato celebrato il funerale dell’ultima ragazza uccisa e già il discorso pubblico si è spostato – dalle domande generate dal turbamento, alle risposte degli “esperti” che mettono a tacere le domande.
Come cittadine e cittadini respiriamo la medesima aria di rabbia, dolore e impotenza di molte altre persone. Come counselor, comunità di professioniste e professionisti delle relazioni e della comunicazione, abbiamo bisogno di strumenti che ci aiutino a capire, andando oltre alla rabbia, al dolore, all’impotenza del momento.
Non crediamo sia in nostro potere impedire il prossimo femminicidio. I miracoli non esistono.
Ma esistono le azioni concrete, che possiamo realizzare nella nostra professione e che possono, forse, scalfire quella cultura sociale, politica e relazionale che alimenta i pensieri e gli istinti (peggiori) di molti uomini. Forse è vero che il patriarcato è finito, ma gli effetti di quel pensiero sono ancora molto presenti. E li incontriamo molto spesso, proprio mentre ci interroghiamo sulle relazioni familiari e professionali, allorché vediamo che le tematiche di genere sono un elemento sostanziale.
Il counseling è un motore di cambiamento e autodeterminazione e basterebbe questo per comprenderne la forza potenziale, anche nel suo impatto sociale. Tuttavia non basta.
Sarebbe un errore considerare che lo spazio di libertà che crea la pratica del counseling non abbia bisogno di essere monitorato con cura e attenzione.
La riflessione su come noi per primi rischiamo di agire pregiudizi, stereotipi e stigmatizzazioni diventa un tassello nella costruzione di un pensiero comune, sociale e politico.
Le studentesse e gli studenti che in questi giorni hanno rifiutato il minuto di silenzio opponendo urla e rumore, hanno – tra gli altri – citato una canzone di Vinicio Capossela intitolata “La cattiva educazione”; anche noi, comunità di professioniste e di professionisti, potremmo (dovremmo?) fermarci e chiederci quali parti della nostra educazione vadano riconsiderate e forse anche riscritte, in modo originale e innovativo.
Ci sono competenze da approfondire e da diffondere che riguardano la nostra capacità di riconoscere le situazioni di violenza contro bambine, ragazze e donne, non solo nelle forme più eclatanti, ma anche in quelle più subdole e invisibili. La nostra categoria professionale si deve interrogare per capire se è preparata a distinguere e ad affrontare stalking, violenze psicologiche ed emotive legate al genere, linguaggi sessisti e discriminatori – spesso mascherati come umorismo – rispetto ad altre forme di conflitto; la competenza si struttura nell’entrare a essere parte consapevole delle reti sociali e professionali del territorio che si occupano attivamente di donne, di violenza e di uomini violenti. Non si tratta di diventare “specialisti”, quanto piuttosto professionisti informati e non indifferenti al tempo e al mondo in cui viviamo e operiamo.
Le nostre azioni professionali sono le parole e i discorsi, le diverse pratiche metodologiche, gli incontri con le persone, i gruppi, le scuole, le aziende: continue occasioni per lavorare con consapevolezza e determinazione alla ridefinizione di prassi, abitudini e consuetudini, quando non sono orientate all’emancipazione e alla libertà di tutte e tutti.
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